Philip K. Dick | Fanucci | 1960
Prima di fare l'autore SciFi, però, l'ambizione di Dick era fare il romanziere, raccontando l'America degli anni cinquanta vista dalle sue lenti niente affatto rosee. Quella che per anni è stata bollata superficialmente come amarezza, (perché alla fine lui era uno di quelli che non ce l'aveva fatta e non poteva che essere invidioso) in realtà fu solo una disillusione vissuta in prima persona. Una disillusione che ha reso una delle sue opere più potenti e mature un inedito sino a due anni dopo la sua morte (1982), quando il perbenismo stava cedendo il posto alle paure della guerra fredda e certe critiche dell'american way of life non facevano più molta paura.
Dick ci racconta la storia del vicinato di un sobborgo americano come tanti, di coppie scoppiate eppure sempre in ordine e pronte a recitare per il pubblico dei vicini. Di maschi medi in crisi cronica, devastati dal moralismo sessuale e ancora di più dal consumismo che li obbliga a competere e ad arrivare, per non si sa quale ragione, poi. Di donne emancipate quel tanto che basta per poter dipendere, chiedere e pretendere dai loro mariti senza sentirsi serve o in colpa, altra anomalia del benpensare.
Sullo sfondo di tutto questo si insinua la gelida ombra del conformismo che, passando per il rinvenimento di un falso teschio di Neanderthal, innesca una paradossale caccia al diverso, all'inferiore, facendo vivere ai protagonisti un razzismo buonista ed ipocrita che getterà ancora più in crisi i delicati equilibri di un'America sterile e incapace di essere critica con sé stessa.
Un romanzo da leggere e fare proprio, perché ancora oggi siamo vittima di pensieri omologanti e di vincoli sociali che definiscono per noi la "vita per bene" ed il concetto di normalità.
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